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C'è paprika e paprica. Senza scomodare i cultori di Tinto Brass (in tale caso si tratta di un altro tipo di Paprika) non si può attraversare l'Ungheria pensando che quella polvere rossa sia sempre uguale. È un po' come ritenere tutte le tappe di un grande giro equivalenti, solo perché ovunque ci sono dei ciclisti che pedalano. Una tappa di pianura non è mai speziata come una tappa di montagna. A meno che non succeda quello che è accaduto a Győr.

Cosa potrà mai capitare percorrendo le strade piatte che attraversano la puszta, tra sterminati campi di girasole e cavalli curiosi? Cosa può scombinare il primo arrivo per velocisti di questo Giro d'Italia non ancora in Italia? La risposta sta in un telaio spezzato appoggiato contro una transenna. E ora ci si ritrova a chiedersi se il Giro d'Italia di Peter Sagan sia già finito, dopo appena due giorni. Neppure Elia Viviani ha troppa voglia di festeggiare la vittoria e chiede notizie dell'ex compagno di squadra, con cui è cresciuto alla Liquigas. Per come è andata a finire, sarebbe stato meglio se fosse arrivata al traguardo la fuga. Verrebbe voglia di riavvolgere tutta la tappa per darle una conclusione diversa. Meno mozzafiato, ma anche meno traumatica.

Neppure il tempo di lasciarsi alle spalle i palazzoni ingrigiti della periferia di Budapest e una decina di corridori se ne va, mentre noi stiamo ancora guardando la statua di Lajos Kossuth in piazza degli Eroi, per notare analogie e divergenze rispetto al busto che gli è stato dedicato in un angolo dell'aiuola Balbo, nel centro di Torino. Storie risorgimentali che si sposano bene con lo spirito dei fuggitivi. Garibaldino, lo potrebbero definire i più retorici. Chi è votato al cinismo lo considera invece un martirio, tanto sudato quanto prevedibile, all'altare degli sponsor: si parte e si va subito avanti pur sapendo che, quando il gruppo si sveglierà dal torpore, sarà pressoché impossibile resistergli. Dentro la fuga ci sono tutte quelle squadre che con l'equivalente dell'ingaggio di Sagan ci costruiscono un'intera stagione e pure un pezzetto della successiva. Al passaggio a Tata (poco dopo metà tappa) i fuggitivi hanno già accumulato un quarto d'ora di vantaggio. Tra loro c'è Manuel Belletti, il veterano della Androni, che in Ungheria ha già vinto nel 2019: quella volta il traguardo era Esztergom, che i più allergici ai toponimi stranieri chiamano ancora Strigonio. Gianni Savio in ammiraglia si accarezza i baffi: da quando ha lanciato Egan Bernal sembra ringiovanito di vent'anni e al suo entusiasmo d'ordinanza aggiunge una dose di legittimo orgoglio nei suoi aneddoti che snocciola prima, durante e dopo ogni tappa.

Il suo sorriso comincia a irrigidirsi quando dietro UAE Emirates, Bora e Bahrain si mettono al lavoro per chiudere sui fuggitivi. Quelli della Emirates, con la loro maglia bianca e il colletto rosso, mi fanno pensare al primo ricordo che ho dell'Ungheria, quando nel 1987 un gemellaggio scolastico portò noi allievi della Scuola media Zanella da Padova sino a Szeged (Seghedino) a bordo di un pullman urlante e sovraffollato, neppure lontano parente di quelli a cinque stelle che ospitano i corridori di tappa in tappa. Neanche il tempo di smaltire le sedici ore di viaggio e ci ritrovammo in un cortile assolato a presenziare alla cerimonia di inaugurazione dell'anno scolastico, con tanto di inni nazionali: noi schierati in ordine sparso, i nostri coetanei ungheresi allineati, tutti con la camicia bianca e il fazzoletto rosso al collo da Giovani Pionieri.

Chissà se anche André Greipel, nella sua infanzia da piccolo (ma Greipel è mai stato piccolo?) scolaretto della Repubblica Democratica Tedesca, ha indossato una simile divisa? Uno come il Gorilla, infortunato, manca nella prima volata del Giro. Forse con lui in mezzo ai velocisti l'esito sarebbe stato diverso? Magari Cavendish non si sarebbe allargato verso le transenne. E Sagan non avrebbe cercato di infilarsi in uno spazio tanto stretto. E invece così è sembrato di rivedere lo sprint di Vittel, al Tour de France del 2017. Solo che stavolta i ruoli si sono invertiti ed è lo slovacco a volare, portando con sé nella caduta Arnaud Démare e Caleb Ewan (entrambi scorticati, ma senza grosse conseguenze). Da quel groviglio è sbucato Viviani, bravo a precedere al fotofinish un Cavendish graziato dalla giuria. Al termine di una giornata così però più che l'ordine d'arrivo interessa il referto medico. Quello viene stilato parecchie ore dopo, quando Sagan – con accanto Gabriele Uboldi, più inseparabile di Jeremy Irons in un vecchio film di Cronenberg – esce dall'ambulatorio radiologico mobile. La spalla destra è fasciata: lussazione. Qualcuno per rincuorarlo pesca il precedente di Contador, che nel 2015 vinse il Giro con una spalla lussata. «Ma io non devo vincere il Giro» replica Peter, strappando subito a tutti una risata.

Poi, mentre Peter si incammina verso la macchina che lo sta aspettando per portarlo in hotel, le domande si fanno incalzanti. «Quante probabilità ci sono di vederti alla partenza della prossima tappa?». «Senti molto dolore?». «Pensi di ritirarti?». Sagan si ferma, si gira e con quella sua voce unica - che prima o poi qualcuno dovrebbe usare per doppiare un cartone animato - risponde: «So andare in bici abbastanza bene anche senza mani». Il Giro può continuare.

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Questa maglia sarà firmata dal vincitore di tappa e messa all’asta per beneficienza alla fine del Senzagiro. Design curato da Fergus Niland, Creative Director di Santini Cycling Wear, su disegno dell'illustratore Francesco Poroli

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