L’undicesima tappa sembrava già scritta. Una tranquilla risalita verso nord, con una volata finale. In apparenza il percorso non lascia spazio alla fantasia: i 181 km coincidono per la maggior parte con la Statale 16, lungo quel territorio stretto tra il mare e le colline che negli anni ‘90 del secolo scorso gli urbanisti chiamavano la “Città adriatica”. Una sequenza continua di case, capannoni, centri commerciali, lidi, porti, che uniscono i centri storici costieri. Un paesaggio che sembra anticipare la Romagna, ma in realtà è un’altra cosa, con quei crinali sullo sfondo e le valli che scendono sulla costa sabbiosa.
Si comincia piano. Anche i fuggitivi abituali sembrano svogliati oggi. Sarà la vista del mare a distrarre i ciclisti oppure l’attesa dei nove colli di domani. I primi 100 km scorrono ad andatura regolare, pilotata dalle squadre dei velocisti. Porto Recanati, Falconara, Senigallia - dove un pensiero va a Gianni Mura, scomparso qui solo due mesi fa - Fano, vengono attraversate sotto lo sguardo di un pubblico numeroso, che non vuole perdersi quei pochi secondi magici che regala il Giro. Una visione fugace, come quella del misterioso motociclista messo in scena in Amarcord da Federico Fellini, a cui sarà dedicato l’arrivo a Rimini.
La situazione cambia all’uscita di Pesaro. Su una curva secca a 90°, subito dopo il ponte sul fiume Foglia, la maglia rosa cade e si ritrova con la bici inutilizzabile. Fa tutto da solo, forse per una distrazione o per una borraccia gettata sull’asfalto. Insieme a Nibali cadono o mettono piede a terra almeno una trentina di di corridori. Non ci sono conseguenze gravi per nessuno, perché in quel punto la velocità è bassa, ma è sufficiente a generare un disorientamento. Le grandi corse a tappe ci hanno ormai abituato a un fair play rigoroso, forse perfino eccessivo in alcune situazioni in cui la competizione viene quasi congelata per consentire il rientro del leader o dei favoriti di giornata. Questa volta no. Con un’azione corsara, una di quelle scorrettezze che animavano le corse ciclistiche di inizio Novecento, Davide Ballerini e il compagno di squadra Iljo Keisse, formidabile seigiornista, che già a Brindisi aveva sfiorato il colpaccio, decidono di lasciare la compagnia. Per qualche istante nessuno li segue, tanto quell’attacco appare fuori dalla regole non scritte del ciclismo moderno. Basta poco però per capire che vogliono fare sul serio. E così partono a ruota altre quattro coppie di compagni di squadra: Černý e De Marchi (CCC), Howes e Craddock (EF), Neilands e Dowsett (ISN), Pozzovivo e Campenaerts (NTT). Poche pendenze, ma fino a Gabicce Mare la strada è un continuo susseguirsi di curve, che rendono invisibili i fuggitivi per chi li insegue. Mentre Nibali si rimette in sella, prima con la bici fuori taglia di un compagno di squadra e poi con la sua, le cinque coppie affrontano a tutta la strada. In cima al San Bartolo il vantaggio raggiunge addirittura il minuto e mezzo. Mancano però quasi 70 km all’arrivo, insistere potrebbe essere rischioso. E invece i fuggitivi continuano nella loro azione, alternandosi a fare l’andatura. È come se la tappa diventasse una madison: manca solo il cambio con la mano, ma la scena è la stessa che si vede in pista, con le coppie di compagni che si aiutano a vicenda, scambiandosi la testa della corsa.
Intanto il gruppo resta frammentato, incapace di reagire. E la fuga va. Non guadagna più, ma non perde nemmeno terreno. A Gabicce il percorso si stacca dal mare: si arriverà a Rimini passando per Sant’Arcangelo di Romagna, abbandonando l’ampia carreggiata della Statale adriatica per infilarsi in una stradina stretta, leggermente ondulata. È una zona di confine, tra collina e pianura, tra Montefeltro e Romagna. Si passa per l’abitato di Coriano: nel settembre del 1944 vi si combatté una durissima battaglia tra gli Alleati e i tedeschi, di cui rimane il ricordo in un cimitero di guerra inglese. Ma non c’è tempo per distrarsi, la gara corre frenetica. Si entra velocissimi in una strada che sembra riassumere il senso della tappa: San Martino in Venti, come il vento che da laterale diventa favorevole al senso della corsa e agevola la fuga. Il distacco si è ormai stabilizzato intorno ai 70-80 secondi. A Sant’Arcangelo si torna a pedalare verso il mare prendendo l’ultimo tratto della via Emilia e iniziano i 10 km finali. Nel gioco delle parti il percorso diventa ora favorevole agli inseguitori. I treni delle squadre dei velocisti e della maglia rosa riescono a disporsi nella maniera più efficace per guadagnare terreno. Eppure le cinque coppie di pistard veri o improvvisati resistono, perdono qualche secondo, ma non cedono.
Si entra a Rimini: mancano solo tre curve per imboccare il rettilineo d’arrivo sul lungomare. Le cinque coppie continuano a pedalare in pieno accordo. Solo sotto la flamme rouge dell’ultimo chilometro c’è un momento di indecisione. Per qualche secondo tutti smettono di tirare. È un rallentamento fugace, ma è sufficiente per innescare il colpo a sorpresa. Victor Campenaerts fa il vuoto, prende 30 m e li difende ricordando a tutti chi è il detentore del record dell’ora. Vince senza avere la forza di alzare le braccia al cielo, rifacendosi di quel cambio bici beffardo che un anno fa a San Marino, non lontano da qui, lo aveva privato di un successo ormai sicuro nella cronometro. Il gruppo arriva 45’’ dopo, regolato in uno sprint all’ultimo respiro, nonostante si lotti solo per l’undicesimo posto, da un redivivo Peter Sagan che brucia Mark Cavendish, nella loro infinita sfida, dal Tour 2017 alla partenza da Budapest.
La classifica non cambia molto. Nibali resta in rosa, ma dopo l’umore nero di ieri a Tortoreto, questa caduta sembra un altro segnale negativo in vista dei nove colli di domani. “Vedremo”, avrebbe detto Gianni Bugno.
Questa maglia sarà firmata dal vincitore di tappa e messa all’asta per beneficienza alla fine del Senzagiro. Design curato da Fergus Niland, Creative Director di Santini Cycling Wear, su disegno dell'illustratore Marcus Reed.